08/21/2016 Ivan Agatiello

L’odore che hanno i Nonni

I Nonni. Sarà che ultimamente ne vedo tanti. Sarà che fuori piove. Sarà che mi mancano.
Chissà cosa fanno, adesso, i miei Nonni.
Me li vedo, nell’altra vita: uno con le mani sporche di grasso, ad aggiustare il camion di sempre, a tirare qualche “madonna” per un bullone che non vuole saperne di stare al suo posto. L’altro, a seminare ravanelli nell’orto dietro l’angolo. Avranno un orto in Paradiso? Si, credo di sì. Anche perché altrimenti mio Nonno ne avrebbe creato uno.
Nonna invece lo aspetta a casa, dietro la macchina da cucito a pedale con la scritta Singer e le verdure sul fuoco. Stanno insieme, lassù da qualche parte. L’altra invece è ancora qui, nella casa di sempre, nella Piazza di sempre: non sente più e ci vede anche meno, ma mi chiede sempre “quando torni?”. Ed io di questo ho bisogno: di sapere che mi aspetta.
Mi mancano i miei nonni. Anzi, li desidero.
Di uno mi ricordo che tremava tanto, che era magro come una lisca e che nel bel mezzo del silenzio cominciava a cantare una qualche canzone della guerra. Mi ha sempre colpito questa questione della memoria: un uomo non parla per mesi, non ricorda il suo nome, ma improvvisamente, canta.
Di mia nonna ricordo il suo letto dietro una tenda, la sveglia con la gallina e l’immancabile scialle blu sopra le spalle.
Dell’altro nonno ho un solo ricordo: la sua testa sprofondata in un cuscino e la sua mano che mi chiede di avvicinarmi. Era il giorno della sua morte. Era il nostro primo incontro. Pagherei tutto l’oro del mondo per ricordare cosa mi abbia detto in quell’istante: ma ero troppo piccolo, troppo spaventato, troppo colpito.
Uno non può scegliere in quale tipologia di famiglia nascere. Ci sono quelle famiglie perfette, quelle con il Natale tutti insieme, i nipoti che passano da una gamba all’altra degli anziani e che d’Estate ci si ritrova tutti alla stessa tavola.
Poi ci sono le altre, quelle in cui devi scegliere se andare da una parte o dall’altra, e Tu alla fine, per non scontentare nessuno, non vai da nessuna parte, e gli auguri di Natale li fai per telefono. Ecco, io faccio parte della seconda categoria.
Non ho mai capito se i miei nonni si siano mai scambiati una parola in questa vita. E dire che avevano lo stesso nome. E gli stessi nipoti.
Ecco, ogni volta che penso ai Nonni, mi ritrovo a sognare ad occhi aperti sempre la stessa scena.
Un tavolo, un pomeriggio di quelli del Sud Italia, appena dopo pranzo, con la tovaglia piena di briciole e le tazzine da caffè ancora lì, che tanto adesso la Nonna viene a ritirarle. Io, dorso nudo e amaro lucano, e loro, canotta bianca e limoncello. Il mio momento di gloria, una roba tra uomini, il racconto di una vita, l’ultimo anello della catena: la stessa catena. Mi ci vedo, a 27 anni, con la barba e la voce più scura di quella che avevo da ragazzo, a fargli qualche domanda sulla vita, sul mondo, sul perché non vogliano andare in ospedale a fare quel controllo (che tanto non ci andrei neanche io). Ma soprattutto, “come avete conosciuto le Nonne?”: e vai con il racconto di come si faceva un tempo, di quanto sia diverso adesso.
È un bellissimo sogno il mio. Alla fine li saluto, li abbraccio per tenermi addosso quell’odore che hanno i Nonni, quell’odore di certezza, di sicurezza, di amore vero, e vado in strada. Entro in macchina e non mi volto: lo so che sono lì, dietro la finestra a vedermi partire, ma a loro non piace che io me ne accorga.
Perciò fingo di non sapere che mi hanno infilato qualche banconota nello zaino.
Fingo di non sapere che sono lì dietro a vegliare su di me.
Fingo di non sapere che si stanno già chiedendo quando tornerò.

È un bellissimo sogno il mio. Ma è solo un sogno.

Magari lì fuori, per qualcuno di Voi, è ancora realtà.
Correte a viverla, perché il tempo è tiranno, perché le rughe aumentano ed i giorni corrono. Correte a dire a quei Nonni quanto siete felici che siano lì.
Perché magari poi è troppo tardi. E fa sempre male quando è troppo tardi.

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