Lettere da un’Epidemia

A pochi giorni dalla fine della tanto sofferta “Fase 1”, vede la luce un’opera nuova:
“Lettere da un’Epidemia”.

Si tratta di una particolare raccolta letteraria in grado di raccontare, sotto forma di una lista di lettere, i difficili giorni legati alla Pandemia mondiale. Sono pagine di un periodo che passerà alla storia come “i giorni del Coronavirus”.
È un libro “vero”, perché frutto di pensieri e parole di persone comuni. A scrivere è infatti gente “di strada”, personaggi alle prese con una vita sobria, senza eccessi né particolari grandezze.
Se è vero che alcuni eventi cambiano la storia ed altri cambiano l’umanità, questo libro ne testimonia la realtà quotidiana. “Lettere da un’Epidemia” è la cronaca intima, affettiva e psicologica dei giorni che vanno dal 21 di Marzo al 03 di Maggio. Dal Primo giorno di Primavera all’ultimo di “Fase 1”. La fotografia che se ne ricava mostra aspetti decisamente più profondi di quelli che appaiono quando la vita avanza regolarmente. L’analisi che ne deriva mostra dettagli più intensi di quelli in luce quando alcun impedimento rallenta la quotidianità dei rapporti. Per una volta l’apparenza delle cose non è predominante sulla loro stessa essenza.
Sono dunque lettere. Lettere che tentano di rispondere ad alcune domande:
“Hai mai sentito la morte passeggiare sulla strada, oltre la porta di casa?”
“Se ti afferrasse oggi, cosa vorresti dire al mondo, ai tuoi figli, al futuro?”. Sono questi interrogativi che hanno ispirato questa raccolta di lettere, queste pagine diventate uno specchio per uomini e donne del nostro tempo. Il frutto di questi quesiti è racchiuso nelle parole di questo libro.
Sono pagine nate per la volontà di capire, dinanzi ad una situazione senza precedenti, quali aspetti dell’umana realtà mantengono il loro originario valore e quali, invece, perdono d’improvviso colore e si dissolvono nel vento delle difficoltà.
La realtà che si rispecchia in queste pagine è quella per la quale dinanzi alla fine della vita come eravamo abituati a conoscerla, alcune cose sono andate perdute, altre sono state invece recuperate.
Sono lettere dunque.
Una serie di lettere grazie alle quali accedere ad un universo umano (quasi) del tutto dimenticato.

Lettere da un'Epidemia



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Prigioni della Mente: Quel che resta di Quel che era

“Prigioni della Mente: Quel che resta di Quel che era”: è questo il titolo completo.
1 macchina fotografica, 2 obiettivi, 5 anni, 10 manicomi, 1 pizzico di follia e 285 fotografie.
Ogni reportage è stato un confronto: con se stessi, con la propria cultura.
Ogni reportage è stata una scoperta: di cosa siamo, di come siamo.
Ogni reportage è stata una storia ogni volta diversa: di uomini, di metodi, di passioni, di ambienti. Di sentimenti più di tutto.
Ogni reportage è stata una crescita: prima come uomo, poi come fotografo.

Come è nato “Prigioni della  Mente” ? Per curiosità. Per un senso di sfida innato verso tutto ciò che appare inesplorato. E per la passione verso quei racconti che nessuno vuole ascoltare, che è meglio non sentire.

“Prigioni della  Mente” è stato anche una riscoperta della storia dei territori.
Sono stato a Colorno, dove Basaglia diede avvio al progetto che avrebbe portato alla chiusura di quelle “prigioni”: è stato impressionante scoprire quanti nomi riempiono i registri depositati al suo interno. Quante Vite. Quante Anime.
Sono stato a Ferrara, dove non corre più alcun fanciullo: un Ospedale Psichiatrico Infantile di cui resta ben poco: la storia vuole che misteriosamente, poco prima della chiusura dell’Istituto, tutti i bambini abbiano trovato la morte tra quelle mura. Un incendio, o un’epidemia: nessuno lo sa.
Sono stato a Reggio Emilia, dove le sbarre testimoniano la vita di coloro che affrontarono tra quelle celle le conseguenze dei loro atti: un manicomio criminale.
Sono stato a Mombello, dove il duce Benito Mussolini fece internare suo figlio, Benito Albino, come anche la madre che lo aveva partorito.
Sono stato a Volterra, dove due artigiani ricordano ancora di quando, da bambini, furono inseguiti nel parco dell’Ospedale Psichiatrico da Alda Merini, mentre tentava di difendere il diritto alla vita degli uccelli del bosco, vittime dei colpi di fionda dei due ragazzi.
Sono stato a Racconigi, dove il numero di ricoverati tra uomini e donne durante le guerre, non fu mai meno di mille.
Sono stato a Teramo, l’immenso Istituto del centro-sud Italia, che ebbe come prima “ospite”, nel Marzo del 1919, una donna cinquantenne, “colpevole” del dolore manifestato per esser diventata vedova.
E siamo stati in altri luoghi, con altri segreti: io ed una macchina fotografica.

“Prigioni della  mente” è stato un viaggio di 5 anni lungo tutta la penisola italiana. E non si è ancora fermato. Dopo le pubblicazioni su La Repubblica e numerose altre testate giornalistiche  (alcuni link: https://www.parmatoday.it/cronaca/foto-manicomio-colorno-ivan-agatiello.html  –  http://www.organiconcrete.com/2016/05/16/prigioni-della-mente-un-viaggio-fotografico-a-cura-di-ivan-agatiello-nei-manicomi-abbandonati/ )  , l’opera è diventata una mostra in collaborazione con i luoghi della cultura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali: l’ex opg di Napoli, il Museo della Psichiatria di Reggio Emilia, il Castello di Racconigi, Palazzo Lanfranchi di Matera, l’Archivio di Stato a Roma. Passo dopo passo “Prigioni della Mente” torna a raccontare una storia dimenticata, torna a far luce su un periodo buio del nostro paese.
Senza troppe parole: con il silenzio di alcune fotografie.

L’odore che hanno i Nonni

I Nonni. Sarà che ultimamente ne vedo tanti. Sarà che fuori piove. Sarà che mi mancano.
Chissà cosa fanno, adesso, i miei Nonni.
Me li vedo, nell’altra vita: uno con le mani sporche di grasso, ad aggiustare il camion di sempre, a tirare qualche “madonna” per un bullone che non vuole saperne di stare al suo posto. L’altro, a seminare ravanelli nell’orto dietro l’angolo. Avranno un orto in Paradiso? Si, credo di sì. Anche perché altrimenti mio Nonno ne avrebbe creato uno.
Nonna invece lo aspetta a casa, dietro la macchina da cucito a pedale con la scritta Singer e le verdure sul fuoco. Stanno insieme, lassù da qualche parte. L’altra invece è ancora qui, nella casa di sempre, nella Piazza di sempre: non sente più e ci vede anche meno, ma mi chiede sempre “quando torni?”. Ed io di questo ho bisogno: di sapere che mi aspetta.
Mi mancano i miei nonni. Anzi, li desidero.
Di uno mi ricordo che tremava tanto, che era magro come una lisca e che nel bel mezzo del silenzio cominciava a cantare una qualche canzone della guerra. Mi ha sempre colpito questa questione della memoria: un uomo non parla per mesi, non ricorda il suo nome, ma improvvisamente, canta.
Di mia nonna ricordo il suo letto dietro una tenda, la sveglia con la gallina e l’immancabile scialle blu sopra le spalle.
Dell’altro nonno ho un solo ricordo: la sua testa sprofondata in un cuscino e la sua mano che mi chiede di avvicinarmi. Era il giorno della sua morte. Era il nostro primo incontro. Pagherei tutto l’oro del mondo per ricordare cosa mi abbia detto in quell’istante: ma ero troppo piccolo, troppo spaventato, troppo colpito.
Uno non può scegliere in quale tipologia di famiglia nascere. Ci sono quelle famiglie perfette, quelle con il Natale tutti insieme, i nipoti che passano da una gamba all’altra degli anziani e che d’Estate ci si ritrova tutti alla stessa tavola.
Poi ci sono le altre, quelle in cui devi scegliere se andare da una parte o dall’altra, e Tu alla fine, per non scontentare nessuno, non vai da nessuna parte, e gli auguri di Natale li fai per telefono. Ecco, io faccio parte della seconda categoria.
Non ho mai capito se i miei nonni si siano mai scambiati una parola in questa vita. E dire che avevano lo stesso nome. E gli stessi nipoti.
Ecco, ogni volta che penso ai Nonni, mi ritrovo a sognare ad occhi aperti sempre la stessa scena.
Un tavolo, un pomeriggio di quelli del Sud Italia, appena dopo pranzo, con la tovaglia piena di briciole e le tazzine da caffè ancora lì, che tanto adesso la Nonna viene a ritirarle. Io, dorso nudo e amaro lucano, e loro, canotta bianca e limoncello. Il mio momento di gloria, una roba tra uomini, il racconto di una vita, l’ultimo anello della catena: la stessa catena. Mi ci vedo, a 27 anni, con la barba e la voce più scura di quella che avevo da ragazzo, a fargli qualche domanda sulla vita, sul mondo, sul perché non vogliano andare in ospedale a fare quel controllo (che tanto non ci andrei neanche io). Ma soprattutto, “come avete conosciuto le Nonne?”: e vai con il racconto di come si faceva un tempo, di quanto sia diverso adesso.
È un bellissimo sogno il mio. Alla fine li saluto, li abbraccio per tenermi addosso quell’odore che hanno i Nonni, quell’odore di certezza, di sicurezza, di amore vero, e vado in strada. Entro in macchina e non mi volto: lo so che sono lì, dietro la finestra a vedermi partire, ma a loro non piace che io me ne accorga.
Perciò fingo di non sapere che mi hanno infilato qualche banconota nello zaino.
Fingo di non sapere che sono lì dietro a vegliare su di me.
Fingo di non sapere che si stanno già chiedendo quando tornerò.

È un bellissimo sogno il mio. Ma è solo un sogno.

Magari lì fuori, per qualcuno di Voi, è ancora realtà.
Correte a viverla, perché il tempo è tiranno, perché le rughe aumentano ed i giorni corrono. Correte a dire a quei Nonni quanto siete felici che siano lì.
Perché magari poi è troppo tardi. E fa sempre male quando è troppo tardi.

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Un sorriso dalle Filippine

Benvenuti, welcome o maligayang pagdating non fa differenza, perché su queste isole, in queste terre che chiamano Filippine, qualunque sia la lingua che voi parliate, ci sarà sempre un sorriso ad accogliere il vostro primo passo.
Non crederete ai vostri occhi, quando apriranno le porte del vostro aereo e vi lasceranno vivere il vostro viaggio. Non crederete che possa ancora esistere su questo pianeta un paesaggio così verde, così ricco. Non crederete che possa ancora resistere su questo pianeta una Natura così intensa, così espressiva. Milioni di piante colorano ogni angolo di questo terra. E dove la terra finisce, comincia il mare: l’immenso Oceano, padre di questa parte del mondo.
Lungo la prima strada vi chiederete come abbiate fatto a scegliere un appartamento in centro, l’orario della metropolitana, la piscina comunale ed il fast food, come abbiate fatto a sopravvivere agli orari d’ufficio, la macchina nuova, l’aperitivo di rito ed il tablet sempre in borsa.
Ma più di tutto, vi chiederete perché abbiate perso il senso reale della vita: parlare con la gente, vivere la natura, amare il mondo e se stessi.
Qui, tra gli occhi sottili di questa gente, ho riscoperto il valore delle emozioni, la loro essenza:
La paura, dell’ignoto, del diverso, del doversi adattare ad una cultura profondamente diversa, della povertà, delle tempeste e persino degli animali in camera. Vi sembrerà di morire, senza i vostri riti, senza il caffè o l’intoccabile pasta, senza una connessione sicura e le cinture di sicurezza.
Il rispetto, di questa gente verso la tua diversità. Alle volte ti sfiorano come si fa con qualcuno che ami, solo per assicurarti che sia vivo, che sia lì, con Te.
La solitudine, che impari a vivere nel silenzio di una Natura immensa, nel ritorno incessante delle onde del mare e nel buio delle sere senza elettricità.
L’amore, per le mani stanche di questa gente che ha perso tutto, che ha visto l’inferno, che ha bisogno di un tuo sorriso, perché basta quello a sentirsi meno soli. E quello per la tua vita, per chi hai di fianco ogni giorno e dimentichi di ringraziare, di abbracciare, perché lì da Noi, siamo troppo impegnati ad inseguire il progresso, per trovare il tempo di amarci davvero.
La tristezza, per la scoperta di quanti volti possa avere la vita, per il pensiero di non fare abbastanza, per gli occhi spaventati dei più anziani, ed anche per quello che non siamo più in grado di apprezzare, in quella parte di mondo più ricca nelle tasche, ma decisamente più vuota nell’animo.
La speranza, che riscopri negli occhi dei bambini per strada, senza una maglia da indossare, ma con il sorriso nel cuore.
Alla fine ho scoperto che ci sono milioni di viaggi che un Uomo dovrebbe compiere prima di morire. E senza dubbio, quello che porta su queste isole è tra quelli. Per la natura, per la cultura, per questa gente e per la più grande delle opportunità: ritrovare se stessi.

 

 

Landscape from Roxas City

Landscape from Roxas City

 

A Te che non ci sei più

A Te che non ci sei più, vorrei dire solamente “Ciao”. Così, per guardare l’effetto che fa la mia voce alla tua pelle.
Vorrei dirti “come stai?” e se anche oggi hai mangiato fuori, in un bar, di fretta come sempre.

Vorrei capire se alle volte ti capita di inciampare in un pensiero che parla di me, o se sono il solo a ritrovarti ovunque.

Vorrei guardare quegli occhi color mare farsi piccoli per il peso di un’emozione. E le rughe sulla tua fronte, i soliti due orecchini. Le lentigini lungo il tuo naso, adesso che è Estate. Hai già messo quel vestito?

Vorrei raccontarti dei fiori che ho piantato per Te: sono nati tutti, ma nessuno li guarda al mattino. Di come sono diventato bravo ad usare le bacchette al ristorante giapponese: me lo hai insegnato Tu.

Vorrei chiederti se stai meglio, adesso che sei andata via. Adesso che siamo due sconosciuti. In silenzio.
E vorrei chiederti se è vero che un pensiero arriva sempre: perché non c’è giorno che cominci senza che guardando il cielo, io ti dica “buon risveglio”; non c’è sera che si addormenti senza che le mie mani suonino per Te quella melodia. La stessa di quel minuscolo carillon sul tuo comodino. Chissà se è ancora lì.

Vorrei sapere cosa ne hai fatto: di tutti i nostri segreti, dei ricordi. Di quelle promesse.
Vorrei sapere se sei felice. E come farò ad esserlo io, adesso che la tua maglia, dentro il solito cassetto, comincia a perdere il tuo odore. Quell’odore di vita: la mia.

Mi chiedo spesso se già c’è chi al mattino prepara per Te il caffè. Se già una mano si posa sul tuo petto alla notte, ad accompagnare il tuo respiro. Ad uccidere i miei sogni.

Anche stanotte, come il resto delle mie notti, non ci sarai. E’ buffo che di tutto quello che si viva, alla fine resti soltanto qualche fotografia.
Il resto è dentro, sotto la pelle, dove è giusto che sia: inesistente per il resto del mondo, infinitamente grande per se stessi.
E lì, Tu ci sei.

Solo questo. A Te che non ci sei più, vorrei dire solo questo.

Stringerti piano e dirti lentamente “Buona Vita Amore mio”.
Ovunque Tu vada, mi trovi lì, in quella canzone, dalla tua parte sempre.

 

Te

“Piccolo…a 70 anni”

E’ vero che il Mondo è piccolo. Che ci si incontra anche senza programmi.

Io l’ho incontrato tre volte, oggi. Un Piccolo, in un Mondo piccolo.

Questa mattina, su un autobus, tra le parole di una Mamma che mi ringraziava per aver asciugato le lacrime di suo figlio inventando una storia di fiori, sogni e farfalle: “Lei sembra uscito da quel libro…spero di incontrare ancora qualcuno come Lei…”.
Questo pomeriggio, in un articolo di giornale che celebrava la sua vecchiaia: 70 anni dalla sua prima apparizione.
Questa sera, dentro un ristorante, tra le mani di un uomo distinto, ben vestito, barba curata e quell’odore di colonia maturo, familiare, paterno.

Ricci biondi e liberi. Così appare, anche adesso, anche quando la vecchiaia dovrebbe aver inghiottito ogni suo entusiasmo.
Così l’ho incontrato, negli occhi di quella Madre, tra le parole di quello scritto, tra quelle mani un po’ vissute.
Il Piccolo Principe.
Era lì fuori, sulla mia strada. Ed era in me, sotto la mia pelle.

Alle volte me lo ricordano: gli somiglio, dicono.
E mi pare di capire che sia una critica, un limite. Mio.

Credo sia per via di quella strana capacità che uno si ritrova, di sognare ad occhi aperti, di restare sempre a qualche millimetro dall’asfalto, di aggiungere un pizzico di follia ad una realtà sempre troppo insipida. Credo sia per quella voglia innata di alleggerire il peso delle cose, di togliere un briciolo di serietà ai momenti quotidiani, che non è superficialità, ve lo assicuro. O dev’essere per quel modo strano di vivere gli eventi, un po’ in disparte, ad inseguire strade che per molti non ci sono, che sono favole. Come spieghi a chi è abituato a guardare, che ci sono cose che gli occhi non possono vedere? Come spieghi a chi ha bisogno di riempirsi di parole, che ci sono cose che devi sentire, non ascoltare?
Credo sia anche per quella naturale passione verso il “nuovo”: ogni bivio un entusiasmo, ogni incontro un’avventura. Sì, come i bambini.
E su tutto. E più di tutto. Pura e dilagante passione. Nessuna ragione. Gli occhi lucidi di fronte ad una fotografia, il cuore in gola per una parola sussurrata bene, un’esplosione nello stomaco per la sorpresa di un’emozione, il sangue caldo per l’abbraccio che aspettavi da sempre. L’istinto: tutto Te stesso in ogni singolo momento. Credo sia questo. E credo sia molto di più. Credo non bastino le parole.

Prendete quell’Uomo, dentro quel ristorante: il suo abito elegante, una vita alle spalle, la carriera ideale, qualche Donna amata, qualcun’altra comprata, l’auto migliore, il week-end in montagna, un buon estratto conto e l’appartamento in pieno centro.
E quel libro per le mani. Un bambino che hai bisogno di incontrare, finalmente. Perché sei solo. Perché vorresti saper piangere, ma non ne sei capace. Perché a furia di rincorrere la cosa giusta, ti si è inaridito il cuore.
Ecco cos’è, davvero, il Piccolo Principe: è uno schiaffo. Ed è una liberazione. Perché con una gomma svuota il tuo castello grigio piombo. E con una matita ridisegna la finestra dalla quale ogni giorno guardi il mondo.

E’ la stessa finestra di ieri. Ma oggi è piena di fiori. E si affaccia sul Mare.

Piccolo...a 70 anni

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